Fa impressione. Per la mole, per la pervasività, per la recrudescenza di una violenza fatta di parole. Fa paura per la tensione che inocula, per l’angoscia che in modo ridondante investe coloro che cercano solo d’informarsi. C’è una pandemia in corso, in Italia. Ed è l’infodemia. La rincorsa cioè di gran parte dell’informazione a cercare un capro espiatorio, su cui riversare tonnellate di colpa con cui piallare qualunque tentativo d’instaurare una coscienza vigile, una reale consapevolezza di come si contrasta o si limita la diffusione di un virus. Invece è ormai scattata la caccia al colpevole. L’inseguimento mediatico perpetrato con la penna o con le foto, con le interviste, con le immagini di uomini e donne rivestiti da tute spaziali, coperti fino all’ultimo centimetro che, aghi alla mano, o davanti a macchinari elettronici angoscianti, con quelle pulsazioni da film di Kubrik, ti avvisano che sta circolando, che sta percorrendo le stesse strade che percorri tu, che è quasi sull’uscio di casa. È il Covid-19, La Sars – Cov 2, il Coronavirus, ogni volta cambia il nome ma non l’angoscia che l’accompagna. E insieme a lui, le immagini di ambulanze, di malati, di persone riverse sul letto, di infermieri bardati, ci accompagna in modo grottesco, con ansiogena continuità senza la possibilità di poterci decontaminare da questa invasione di ultracorpi mediatici, virulenta come un Blob televisivo, in cui si mescola all’angoscia un senso di rassegnata compassione e di nichilistica accettazione della violenza televisiva e social.
Non avevamo mai assistito ad un pestaggio mediatico di questa portata, con agguati e stupri televisivi, in cui il dettaglio della telecamera arriva fino al dolore di chi si trova in una terapia intensiva e dove il diritto di cronaca si trasforma in un tessuto narrativo quasi fisico, con l’ostentazione del giornalista vestito come un pupazzo giapponese che, con il fiato corto, entra in terapia intensiva per farci sentire quanto fa male il Covid, come ti soffoca il Covid, e come di conseguenza la rassegnazione al soffocamento mediatico sia una condizione cui abituarsi.
Nessun barlume di coscienza, nessuna applicazione della ragione, nessuna rimozione della paura come viatico per agevolare la consapevolezza. Si continua così come un pestaggio 100 contro 1, il più forte che usa la carica virale del mezzo mediatico contro il corpo indifeso dell’utente che guarda la notizia a casa sua o sul cellulare. Il virus è intorno a noi, e ci sta rendendo tutti positivi all’informazione malata, che parla logorroicamente senza più seguire un filo logico. Teso solo a spaventarci quando arriva l’esito del tampone mediatico, tra un canale e l’altro nei social drive, o nelle tv drive. Violenza di Stato. Una Piazza Fontana virale, tossica, assassina. La fine della democrazia. Un compromesso storico con l’ignoranza elevata a potere. La scienza che diventa certezza e poi minaccia. Che istiga, che come i guardiani della rivoluzione in Iran controlla, limita, delimita, ammette, approva, rifiuta. La fine della ragione e della critica della ragione.
E sarebbe bastato costruire nuovi ospedali e avere più medici e infermieri per evitare tutto questo: a partire dalla crisi del sistema sanitario. Sarebbe bastato avere coscienza sociale e usare la ragione critica. Meglio scappare dalla libertà del pensiero, invece. Ed essere in catene.