Un professore si è rotto un dito. Quindi è in malattia per un mese. Niente lezioni in aula e neppure a distanza. Un altro invece è immunodepresso. Nell’attesa del vaccino ha chiesto di essere messo in malattia per tre mesi. Fino a dicembre. Anche in questa circostanza, non solo non fa lezione in aula. Ma neppure a distanza. Nel frattempo i suoi alunni devono arrangiarsi con delle sostituzioni settimanali. Nessun professore vuole essere messo sotto contratto per meno di due mesi, venendo depennato dalle liste d’attesa per avere un ruolo almeno annuale. Cosi, supponiamo, una classe quinta che quest’anno deve fare la maturità, si trova nella condizione di non avere un docente nella materia più importante che dovranno portare a Giugno. Un altro ancora, tra i docenti, ha un ginocchio rotto. Anche questa circostanza porta direttamente ad escludere il professore dalle lezioni d’aula. Senza fare sterili ed inutili polemiche contro il ministro che segue ad un predecessore, e precede un successore, viene in ogni caso da mettersi le mani nei capelli. In una scuola di Milano, che una situazione del genere possa essere accettata e sdoganata come normale, appare non solo sconveniente: ma un tantino folle. Eppure di casi come questi ce ce ne sono a migliaia. E non solo a Milano. Professori quindi reperiti dal mezzogiorno, magari precari nel capoluogo lombardo allocati in qualche casa di fortuna, con una vita precaria tanto quanto il loro stipendio, si occupa di passare da una scuola ad un’altra, saltabeccando tra una cattedra e l’altra nell’attesa che qualcosa succeda. Intanto i ragazzi pagano pegno per questo disprezzo che quarant’anni di cattiva gestione hanno prodotto. Molti di loro arriveranno impreparati all’esame di maturità, con una formazione approssimativa, proprio nell’anno che precede la loro iscrizione all’università. Iqn un mondo della scuola che non solo non li sa introdurre nel mondo degli atenei, ma che addirittura non riesca declinare la propria natura. In questo caos generazionale e amministrativo, tra assurdità normative, per cui chi si rompe un dito sta a casa un mese, chi un ginocchio magari tre, e se si tratta di una malattia cronica, magari potrebbe trovarsi stipendiato per anni, gli studenti pagano lo scotto maggiore. Non vengono preparati, non sono addestrati ad affrontare il mondo universitario e arrivati nel terzo millennio imparano leggendo e ripetendo, dimenticando dopo due giorni quello che hanno registrato nella loro mente: nel più classico analfabetismo di ritorno. Difficile immaginare un futuro per questi ragazzi, trasformati in vittime sacrificali sull’altare della burocrazia e dei diritti. Diritti di e per tutti, tranne che per loro. Sprovvisti di qualunque tutela, in preda ai barbari della TV, che squalifica qualunque dignità e disciplina didattica e formazione culturale; e vittime anche dei social media, che propongono una visione della vita da ubriachi da bar, o da tossicodipendenti umorali, castrati dalla sottocultura dell’immagine e dalla pleonastica arroganza della società del consumo. Condizione sociale dove il danaro è l’unica cosa che conta, anche a scapito dell’etica individuale. Il degrado della scuola è dato dalla rinuncia all’esercizio della critica e della violenza intellettuale. Per liberarsi dalle catene che tengono legato l’uomo occorre poter studiare e amare lo studio come sbocco verso la coscienza. Il contrario dell’ottundimento collettivo odierno e del disinteresse mostrato verso i più giovani