Li abbiamo abbandonati.
Abbandonati davanti alla televisione e ai loro smartphone, al computer di casa. In questi mesi in cui il Coronavirus ha scaraventato all’inferno le sensibilità di ognuno, pervasi di morte, abbiamo scientemente deciso di lasciare i nostri figli in balia della paura più profonda. Quella del vuoto. Dell’ignoto. Abbiamo lasciato i nostri figli in balia di norme e regolamenti per cui abbiamo imposto loro una cattività coatta; li abbiamo costretti ad indossare le mascherine, anche quando da soli, anche quando le strade erano vuote.
Soprattutto però abbiamo lasciato i bambini e gli adolescenti a gestire l’intero periodo del Covid, costringendoli a farsi carico delle nostre nevrosi. Dei bollettini giornalieri, di una stampa impazzita che ha cavalcato l’angoscia collettiva caricando di ulteriore paura un Paese già spaventato.
Abbiamo caricato i giovani di sensi colpa: accusandoli quando andavano a correre, accusandoli se s’incontravano in due per strada. Ed infine abbiamo concluso l’opera di deragliamento sociale colpevolizzando e aggredendo la loro voglia di socializzare, di stare insieme.
Ed è bastata una giornata al parco o una bevuta lungo i navigli di Milano, per stigmatizzare un’intera generazione non ancora supina alle volontà del narcisismo mediatico, declinato dalla scienza, che sulle paure della gente ha pensato di arrotondare i propri già robusti stipendi.
I giovani hanno risposto con la vita alla morte, con il sorriso alle lacrime, con la spensieratezza alla paura, con la vitalità, il corteggiamento, la spavalderia, la tracotanza. Hanno reagito alla paura della vita, di cui molto sono stati investiti, in una società in cui si compete per tutto. Per il lavoro, per l’immagine, per i vestiti, per la casa, per la macchina, per l’ultimo modello di cellulare posseduto, per l’ultimo tipo di occhiale indossato, per le scarpe, per il trucco, per i propri capelli, per la cura del proprio fisico, per l’ultimo tatuaggio, per i locali frequentati.
Di fronte a un tale carico di ansia sociale abbiamo esposto i ragazzi alla solitudine più profonda, mista all’invidia per la loro capacità naturale di rispondere all’angoscia del vivere. Non siamo stati capaci di dotarci del dono più importante: l’ascolto. Se qualcosa c’ha insegnato, il Covid -19, è l’ascolto (mancato) della natura. Dei segnali che la natura ci ha inviato: con le piogge, le tempeste, le burrasche, le bombe d’acqua, la siccità, lo scioglimento delle calotte polari. E il silenzio che lascia dietro di sé ogni catastrofe naturale. Come i silenzi dei nostri figli, e le catastrofi che abbiamo provocato dentro di loro.