Se questo è giornalismo.
“Io se fossi Dio
maledirei davvero i giornalisti
e specialmente tutti
che certamente non sono brave persone
e dove cogli, cogli sempre bene.
Compagni giornalisti avete troppa sete
e non sapete approfittare delle libertà che avete.
Avete ancora la libertà di pensare
ma quello non lo fate
e in cambio pretendete la libertà di scrivere
e di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
di presidenti solidali e di mamme piangenti.
E in questa Italia piena di sgomento
come siete coraggiosi, voi che vi buttate
senza tremare un momento.
Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti
e si direbbe proprio compiaciuti.
Voi vi buttate sul disastro umano
col gusto della lacrima in primo piano.
Sì, vabbe’, lo ammetto
la scomparsa dei fogli e della stampa
sarebbe forse una follia
ma io se fossi Dio
di fronte a tanta deficienza
non avrei certo la superstizione della democrazia.”
Sono le parole di Giorgio Gaber. Un testo del 1983, “Io se fossi Dio”. Come sono attuali le sue parole, vero? Quante volte, ogni giorno, leggendo un pezzo o guardando un telegiornale ci appare sempre più evidente la scorrettezza, l’incoerenza e la vocazione a schierarsi contro qualcuno o qualcosa, anziché raccontare i fatti? Con geometria variabile potremmo verificare questo assunto da destra a sinistra e viceversa.
Notizie campate per aria. Costruite artificialmente con l’intento di provocare lo sconquasso che restituisce la visibilità cercata. Articoli costruiti su misura per dileggiare, infangare, accusare qualcuno sostituendosi alle procure della repubblica.
Giornalisti non giornalisti che esercitano senza essere autorizzati, che violano qualunque deontologia. Violenza gratuita ad personam al solo scopo di costruire artificiose teorie che restituiscono spesso il dolore di coloro che sono colpiti e il narcisismo compiaciuto di chi ha usato la verga anziché la penna, o la penna intrisa nel veleno.
Giornalismo servile al servizio del potente di turno, esercitato al solo scopo di crearsi una carriera. Il tutto a scapito della verità e della sua ricerca.
Per questo assistiamo alla definitiva ed esiziale perdita di credibilità di una categoria la cui reputazione è ormai pari a zero; mentre nel mondo anglosassone mantiene ancora una parvenza di rispetto.
È così, con questa scusa, il diritto all’informazione, che si può offendere la dignità di una donna, l’onorabilità di un politico o di una persona sotto processo, prima che sia arrivata una sentenza. Immagini ammiccanti che insistono sul particolare scabroso per affossare la credibilità di un accusato; la rutilanza di uno strillo posto in essere per ferire nel nome della cronaca, in realtà nel nome del danaro. E poi ci sono quelli che colpiscono per scopo politico. Auto diretti, per odio personale, o eterodiretto, per interessi per lo più economici.
In questo modo abbiamo perduto ogni rispetto per le persone. In questo modo compromesso qualunque credibilità. Così abbiamo perduto la capacità di produrre pensiero. Al suo posto: invettive, insulti, accuse, calunnie, insolenze. Che c’entra tutto questo con il giornalismo?
Assolutamente nulla.
Hanno attaccato persino i poveri accusandoli di essere molesti. Di puzzare. D’inquinare l’estetica contemporanea. Parole usate come un maglio contro i più deboli. Anziché indagare chi genera la povertà. Avevamo la libertà di pensare. L’abbiamo perduta. E siamo colpevoli, di questo.
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