Paura. Ansia. Precarietà. Lo story telling della Milano contemporanea è spesso dipinta con questi colori. Il nero della paura, il marrone dell’ansia. Di qui l’onere di osservare quelle quote di città vittime in molte circostanze di un disagio sociale che si scaraventa letteralmente nella quotidianità di uomini e donne inermi di fronte ai movimenti della storia.
Il primo balzello che ciascuno paga alla convivenza forzata di culture idee e sensibilità diverse è il rapporto con il mondo del lavoro. Proprio l’occupazione è diventata la maggiore ansia di una generazione incerta e spaventata. Non è più sicura come prima e non ha addentellati sociali che facciano da garanzia allorquando il lavoro nella vita di una persona non c’è. Gli ammortizzatori sociali si stanno assottigliando. E questo progressivo impoverimento delle sicurezze sociali genera un panico incontrollato soprattutto sulla stabilità psichica di molte persone. Più tra i cinquantenni che tra i ventenni, già costretti a fare i conti con una precarietà strutturale.
Proprio la mancanza di lavoro è quindi propedeutico a quelle forme di solitudine che assumono i connotati di violenza sociale che si registra tra le strade, nei vicoli della città, non solo di giorno ma soprattutto di sera, quando le tenebre avvolgono l’inconscio di queste persone trasformando la loro solitudine in una rabbia indistinta che provoca violenza senza controllo.
È al tavolo del lavoro, del lavoro che non c’è eppure servirebbe, che si costruisce un nuovo modello di società: più sicuro, più civile e meno spaventato. Di lavoro, di lavoro dignitoso e ben pagato, di occupazione che crei reddito. di cui invece si tende a non voler parlare, volendo lasciar fare al mercato, magari ostacolando persino chi si coinvolge in processi produttivi, permettendo ancora si possa immaginare che l’impresa sia percepita come un coacervo di malintenzionati, un luogo di evasori, di banditi, di persone inclini alla malavita.
In questa complessità sociale lavorare e trovare lavoro diventa sempre più un’ipotesi. Difficile vivere con l’ansia del futuro addosso e la paura di restare soli con le proprie paure.
La legge non deve servire solo a punire chi trasforma quest’incomprensione, questa angoscia, in violenza; ma a ripristinare condizioni di vita minimamente dignitose, restituendo la dimensione del sogno, inteso come relazione concreta con il mondo, a quanti l’hanno perduta o mai avuta. La società civile anzitutto si cura dell’essere umano e delle sue fragilità
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