Milano Positiva ha intervistato Liliana Segre, una donna che insegna ogni giorno con la sua presenza il senso stesso della vita.
Poche sere fa ho conosciuto ed intervistato Liliana Segre. Deportata nel campo di Auschwitz il 30 Gennaio del 1944 a soli tredici anni perché bambina ebrea. Quando l’avvicino mi dice: “Non mi faccia domande banali”. È come la immaginavo ma da vicino sento quel dolore che ha represso per anni per sopravvivere. Quando sale sul palco, lo pubblico domani, pronuncia parole intense e non riesco a contenere le lacrime. A lei, di fronte al quale mi sento un essere minuscolo, per il gigantesco dolore sopportato, riesco a fare solo una domanda: cosa sia la memoria e cosa il senso della vita, dopo la shoa. Sulle sue braccia il numero con cui venne marchiata nel campo di sterminio: 75190. Sarà lei a parlare proprio di essersi sentita un numero, svuotata di qualunque dignità, del senso stesso della vita. 74 anni dopo mi racconta cosa sia per lei il senso della vita. Un messaggio pronunciato senza rancore malgrado il nazifascismo gli abbia portato via il padre e i nonni paterni. E un appello, trasformato in proposta di legge: abolire gli hate speech. I discorsi dell’odio, le parole usate per offendere. Perché anche le parole possono uccidere un’anima. Liliana Segre mostra come nella vita si possa andare oltre il confine del male assoluto. Vivendo con la forza che deriva dall’aver compreso cosa sia il nichilismo, la cancellazione di qualunque dignità umana. La sua semplicità nei gesti la sua disponibilità a raccontare, ad essere testimone della shoa quale paradigma del male costituisce un valore assoluto. È la tenerezza di una donna, senza paura. Ha trasformato da abisso segregato dentro i lati più oscuri della propria identità, a luce vera,il suo dolore. Testimoniato davanti a tutti, quando il dolore che aveva generato il pudore del segreto, s’è trasformato nella lucida consapevolezza che la memoria è vita. Eterna.