La cultura punk degli anni ’70 aveva coniato uno slogan: meglio bruciarsi che spegnersi lentamente. Cinquant’anni più tardi possiamo dire che abbiamo rovesciato il paradigma. Un sempre maggior numero di persone, sempre più giovane, accede al mondo web spegnendo lentamente il proprio cervello. La propria mente affoga l’ esistenza in una condizione di assuefazione e di dipendenza da un mondo fantastico: cioè da intendersi come frutto delle proprie fantasie. In questo modo s’annega il pensiero dei più: all’interno di una realtà virtuale accidentalmente simile a quella reale, più spesso dissimile.
E come la generazione della rivoluzione sessuale e dei costumi, Made in ’68, venne abortita da un diffuso consumo di eroina e marijuana, dentro il quale lo spleen trovava la sua condizione di riconoscibilità, questa dei primi anni del terzo millennio sta lentamente accrescendo una dimensione proiettiva, non priva di pericoli, quando lo iato tra condizione soggettiva reale e quella virtuale diverranno tanto forti da provocare un inconscio cortocircuito collettivo e individuale.
In modo particolare l’uso del web, per affrancare la propria congenita ed umana fragilità, allorquando si trasformi in latrina ove dare sfogo alla propria egolatria che spesso mette radici nell’odio, nella violenza e nella xenofobia, quale unica modalità non intermediata per cercare una personale riconoscibilità, rischia di compromettere l’assetto psicologico e sociale provocando effetti collaterali antropologici su vasta scala.
Dunque quello che ai suoi primordi era apparso come un gioco, un click per evadere da una difficile condizione umana, si sta trasformando in un rischio che colpisce soprattutto quelli che non possono difendersi: i ragazzini e le ragazzine di una confusa generazione, attraversata da una rivoluzione industriale vorace. Proprio questa condizione è il prologo di un mondo che, se decontestualizzato da un coacervo di regole condiviso, se legalizzato nella sua bulimia narcisistica, rischia di diventare la condizione di prossimità ad un’autentica povertà etica. L’effetto che si produce infatti è quello di non saper più distinguere la condizione umana da quella virtuale e dunque il vero dal finto, il bene dal male, l’uomo dal suo riflesso. Rimanendo così prigionieri di un’immagine slegata dell’anima. Sta all’umanità ricondurre alla parte più profonda di sé questi processi senza abdicare mai alla ricerca della verità interiore, cioè all’anima. Vero motore della vita, alimentato dall’amore. Non solo di sé, ma dell’altro da sé. Complementarietà senza il quale, due non potrebbe mai essere ricondotto all’uno. Cioè all’essere umano.
Di questo abbiamo parlato con il Prof. Vincenzo De Feo, durante un incontro organizzato dall’ordine dei giornalisti sul rischio del bullismo via internet, più noto come cyberbullismo