Angiu ha superato da poco i trent’anni. È Nigeriano ed ogni mattina lo trovi davanti al Bar Carapina di Via dei Transiti a Milano. Non pubblico la sua foto, per un riserbo che riflette quello che lui ha avuto verso di me, prima di aprirsi e di raccontarsi.
L’incontro, Angiu, in un’arteria stradale di poche centinaia di metri che collega Via Padova a Viale Monza. Gentile nei modi, mi ha colpito subito per la curiosità con cui si è sempre approcciato alle cose che gli accadono attorno. Lui è lì in un fazzoletto di strada a chiedere l’elemosina. Ma lo fa con una tale eleganza e con un tale riserbo, con il sorriso gentile di chi non vuole invadere lo spazio altrui. Spesso l’ho trovato seduto ai tavolini del Bar, a fare ripetizioni di italiano sostenuto da alcuni insegnanti che si sono presi a cuore la sorte di questo ragazzo. È stata questa la ragione che mi ha spinto a parlargli, ad avvicinarlo e a capire chi davvero sia Angiu. Dimesso, ma vestito con dignità considerata la sua condizione, Angiu in realtà è laureato in economia con un master in business administration&management. Parla tre lingue: la sua d’origine, l’inglese e comprende perfettamente l’italiano, anche se lo parla invece in modo non ancora pienamente compiuto. Ha un permesso di soggiorno ed entrando in confidenza con lui, dopo aver creato un progressivo rapporto di fiducia, scopro che il ragazzo è tutt’altro che privo d’esperienza. Ha lavorato in Italia presso la reception di un albergo, ma è disponibile a fare qualunque lavoro.
I suoi modi hanno conquistato il quartiere, la simpatia dei titolari del bar che gli offrono la possibilità di fare la sua “ora” d’italiano studiando, mentre altri fanno colazione prima d’andare in ufficio; e le attenzioni anche delle mamme del posto che vedono proiettivamente in lui una sorta di figlio.
“Sto cercando lavoro”, mi dice, perché in Nigeria il lavoro non si trova. No, non si trova, dico a me stesso, pensando al fatto che sono gli italiani che lì hanno portato le loro aziende e il loro management declinando l’effetto globalizzazione: chi sta qui, in Italia, se ne va in Nigeria, e chi sta lì se ne viene in Italia. Solo che il potere d’acquisto per un nigeriano che viene qui non è lo stesso di chi al contrario dall’Italia va in Nigeria.
Milano Positiva quindi è stato il primo approdo a cui l’ho indirizzato. Come luogo in cui reperire le informazioni necessarie per cominciare a programmare il futuro, a valutare la formazione professionale opportuna per tentare di arrivare ad uno sbocco occupazionale. Il senso di Milano Positiva è proprio questo. Definire uno spazio in cui incontrare coloro i quali, in una condizione di bisogno, sono parte attiva del proprio stato, padroni della propria anima e del proprio destino. Il bene non cala dall’alto ma dalla coscienza che il destino ciascuno lo costruisce da sé. Anche con uno sguardo, un sorriso, una mano allungata per aprire una porta ad una signora che accompagna i propri figli o da un buongiorno pronunciato con un sorriso incontrando le persone.
Milano Positiva è in cerca di coscienza. Un contributo essenziale, per lo sviluppo civile di una convivenza sociale.